sabato 12 luglio 2014

Indesit e l'emigrazione dei marchi italiani



E così, anche Indesit ci ha lasciati.
Con l'acquisto da parte di Whirpool del 60,4% del celebre marchio di elettrodomestici, l'industria italiana perde il controllo di un altro dei suoi pezzi pregiati, uno dei pilastri attorno a cui si formò il famoso boom degli anni '60.
Un'azienda capace di occupare nel periodo di massima espansione fino a 12.000 impiegati (tutti in Patria), tanto per dire.

Certo, la storia del marchio torinese non è sempre stata florida, con una lunghissima crisi negli anni '80 culminata nell'acquisizione da parte dei rivali della Merloni Elettrodomestici (Ariston), che però seppero far fruttare l'investimento al punto da raggiungere il secondo posto in Europa nel settore. 

Ricerca, innovazione, specializzazione... Indesit Company (dal 2005 il nuovo nome della Merloni Elettrodomestici), a dispetto del mantra autorazzista per cui le aziende italiane "non fanno gli investimenti", ha sempre puntato sull'eccellenza, ma non si è salvata lo stesso dallo shopping straniero.

Un fenomeno, quello dell'acquisto di marchi italiani da parte di aziende estere, che ha raggiunto proporzioni preoccupanti, come evidenziato lo scorso anno nel rapporto Eurispes dall'eloquente titolo Outlet Italia. Cronaca di un paese in (s)vendita. Dal 2008 al 2012 sono 437 le aziende italiane acquistate da gruppi esteri. Tra queste, eccellenze come Krizia, Frau, Telecom, Fiorucci (alimentari), Bulgari, Ducati, Valentino, Algida, Richard Ginori.

Alla faccia dell'Italia che deve impegnarsi per "attirare capitali esteri"!!!

Ora, posto che i capitali esteri arrivano eccome da queste parti, al punto che interi comparti tra i più strategici per l'Italia come quello alimentare, quello delle telecomunicazioni e quello della moda sono quasi completamente sotto controllo di gruppi esteri, perché non viviamo ancora in un paese fantastico dove tutti hanno lavoro, il Pil vola e le aziende non sono più brutte sporche e arretrate come quando erano di proprietà italiana? Perché i lavoratori di qualsiasi azienda, quando sentono che la loro fabbrica potrebbe passare nelle mani di un qualche gruppo estero, provano un brivido lungo la schiena ed iniziano mobilitazioni preventive?

Una risposta esauriente si trova in questo articolo del Prof. Bagnai su Il Fatto Quotidiano ed in quest'altro di GPG Imperatrice su Scenarieconomici.it, dove tralatro si spiega che la vendita all'estero di aziende italiane è negativa, nella maggior parte dei casi, per due ragioni:

  1. Parte delle acquisizioni vengono fatte con scopi tutt'altro che benefici per la nostra Nazione: aziende straniere acquistano marchi locali per accaparrarsi brevetti o know-how, eliminare concorrenza acquisendo al contempo una nuova rete commerciale o sfruttare il prestigio di un brand già noto delocalizzandone nel tempo la produzione (purtroppo i consumatori continuano a percepire come provenienti da un dato paese anche merci che quel paese non produce più).
  2. Anche ammesso che l'azienda di proprietà estera mantenga la struttura produttiva in Italia, porterà comunque nel proprio paese i ricavi, causando in ultima istanza un deficit nella bilancia dei pagamenti, quindi incidendo in negativo sul Pil (proprio quel Pil che i capitali esteri dovrebbero far ripartire).
Anziché continuare a sognare lo "zio d'America" (o di Russia, o di Cina) che ci salvi con le sue benevole acquisizioni, sarà forse il caso di elaborare un piano industriale nazionale almeno per difendere i settori strategici della nostra economia? Sarà il caso di rimboccarci le maniche e produrre valore, come già abbiamo dimostrato di saper fare più volte nella nostra storia?

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