venerdì 20 gennaio 2017

Il giorno che cambiò la storia?


Tra poche ore Donald Trump presterà giuramento come Presidente degli Stati Uniti ed inizierà ufficialmente il suo mandato, che potrebbe rivelarsi il più dirompente degli ultimi decenni. Si fa fatica a ricordare un Presidente americano meno in continuità con l'establishment di questo: non lo era Reagan, liberista convinto che pure venne sbeffeggiato e ritenuto inadatto all'incarico nella prima fase alla Casa Bianca; non lo era Clinton, che anzi con l'abrogazione del Glass-Steagall Act spalancò le porte al modello economico dominato dalla finanza causa diretta della crisi del 2007; di certo non lo è stato Obama, che al di là di alcuni provvedimenti cosmetici non ha mai in alcun modo ostacolato la deriva ultraliberista dell'economia, favorendo anzi una maggiore precarizzazione del lavoro tutta a vantaggio del capitale.

Almeno nelle intenzioni, Trump sembra voler rovesciare il processo di distruzione del lavoro tradizionale mettendo un freno alle delocalizzazioni, ipotizzando dazi doganali sulle merci estere e premiando le aziende che decidano di mantenere le industrie negli Stati Uniti e salvaguardare così posti di lavoro veri capaci di ridare ossigeno ad una classe medio-bassa devastata da due decenni di liberismo sregolato. Solo per aver ipotizzato questa "rivoluzione" il Presidente si è guadagnato l'ostilità aperta, apertissima, delle élite finanziarie e del loro codazzo di media, pseudo associazioni per i "diritti civili" e vippaglia varia. Il cuore vivo della globalizzazione ed i suoi altoparlanti avvertono per la prima volta un serio pericolo per i propri interessi e si preparano a reagire ad ogni livello.

Non che il 45° Presidente degli Stati Uniti sia del tutto estraneo al mondo delle élite: figlio di un tycoon del settore immobiliare ed imprenditore miliardario egli stesso, rappresenta un tipo di economia legata alla produzione divenuta sempre più marginale in occidente proprio per l'abnorme finanziarizzazione del sistema. Forse grazie anche al suo background professionale, Trump sembra aver intuito la profonda insostenibilità dell'attuale sistema economico globalizzato, che sposta il più possibile la produzione nei paesi con salari e diritti minimi ed il profitto nei "paradisi fiscali", sostituisce nei paesi avanzati il lavoro stabile con precariato, importazione massiccia di manodopera sottopagata e palliativi come i vari "redditi di cittadinanza", oltre a spingere/costringere i ceti medio-bassi ad un costante irreversibile indebitamento.

Quello che viene raccontato come "il protezionismo di Trump" sembra essere in realtà solo l'intuizione della necessità del ritorno ad una dimensione nazionale dell'economia, dove il processo produttivo rimanga ove possibile in casa per alimentare, tramite posti di lavoro veri e redditi stabili, un mercato dei consumi sano e non drogato attraverso il debito. Nessun altro Presidente al mondo - tranne forse quello cinese, che sembra invece essersi già eletto nuovo paladino della globalizzazione - potrebbe avere la forza sufficiente per limitare la fame della finanza e ridare un po' di dignità ai milioni di persone che negli Stati Uniti come in Europa stanno usando ogni mezzo democratico per manifestare il proprio disagio.

Il ritorno alla Nazione è la chiave di volta di questo processo, perchè solo all'interno di un contesto di sovranità nazionale è possibile per le classi subordinate far sentire la propria voce e solo la piena autorità dello Stato può limitare la propensione allo sfruttamento - di risorse, ambiente e persone - innata nel capitalismo.

Non è possibile, ad oggi, sapere quanto delle idee di Trump si tramuterà in pratica, né quanto egli stesso abbia chiara la vastità e la natura della posta in gioco, ma il fatto stesso che da oggi nello studio ovale ci sia lui e non una ultrà del liberismo globalista come Hillary Clinton è abbastanza per alimentare speranze positive.

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