mercoledì 3 gennaio 2018

2018

Il 2017 si è chiuso da pochissimi giorni, e con esso una delle peggiori legislature della storia repubblicana.

La XVII legislatura, nata monca dopo la non vittoria del Pd alle elezioni del 2013, ha visto comunque insediarsi tre governi (Letta, Renzi, Gentiloni) e due Presidenti della Repubblica, grazie anche al tasso record di cambi di casacca tra i parlamentari.

In perfetta continuità con l'esecutivo "tecnico" che aveva chiuso la legislatura precedente, ed in ossequio al volere dell'Ancien Régime 2.0, si è portata avanti la precarizzazione del mondo del lavoro con il Jobs Act, avviata la privatizzazione della previdenza pubblica con l'introduzione di un provvedimento volutamente contorto quale l'Ape, la distruzione della Scuola tramite sperimentazioni bislacche e la sua mutazione in distributore di manodopera a costo zero tramite l'alternanza scuola-lavoro.

Estranei al concetto stesso di interesse nazionale, i governi degli ultimi cinque anni hanno eseguito con spirito pronto e obbediente ogni ordine giunto da Bruxelles o dagli altri centri di potere economico finanziario, spesso mostrandosi più realisti del re nell'eseguire quanto richiesto.

Una legislatura perennemente in bilico tra tragedia e farsa, come l'ultimo provvedimento entrato in vigore (ovviamente a ricezione di una norma "europea"), che obbliga tutti noi a pagare persino i sacchetti della frutta al supermercato.

Pur in clamorosa assenza di un chiaro mandato elettorale, queste maggioranze sgangherate hanno addirittura tentato di stravolgere la Costituzione ed il funzionamento delle istituzioni con una sciagurata riforma, fortunatamente cassata dal volere popolare con il referendum del 4 dicembre 2016.

La forte reazione dell'opinione pubblica è stata decisiva anche per scongiurare un altro scempio, quello Ius Soli che avrebbe contribuito in brevissimo tempo a frantumare ancora di più la coesione delle categorie sociali avvitandole in lotte intestine etnico-religiose e lasciando le élite libere di proseguire indisturbate nella demolizione dello Stato Sociale e nell'esproprio della residua ricchezza privata ancora nelle disponibilità della classe media.

Tra sessantuno giorni esatti il voto popolare chiuderà definitivamente questa storia e ne aprirà una nuova, che potrebbe riprendere dove questa è finita, o assestare quella scossa benefica al paese ed al continente e segnare l'inizio del risveglio della Nazione dopo un sonno durato troppo a lungo.

La linea di faglia che deciderà l'uno o l'altro esito è sempre la stessa da ormai più di un decennio: la volontà di affrontare la questione Unione Europea ad iniziare dal suo strumento più coercitivo: la moneta unica.

Qualsiasi altra proposta, qualsiasi altro programma che prescinda dall'affrontare la questione dell'euro ed i danni che questo sistema sbagliato arreca all'Italia è semplice fuffa, e si rivelerà come tale quando l'ennesimo "Ce lo chiede l'Europa" ci costringerà a dirottare ancora una volta le risorse della nostra economia nel demenziale tentativo di soddisfare obiettivi irraggiungibili.

D'altronde a Bruxelles hanno già anticipato da mesi che il prossimo esecutivo, qualunque sia, sarà chiamato a varare entro breve una manovra aggiuntiva necessaria a "riallinearsi ai target europei". Tanta è la considerazione che si ha per i concetti di democrazia e autodeterminazione da quelle parti.

Il 2017 è stato - a torto - raccontato come l'anno della ritirata delle forze sovraniste, mentre iniziava un bombardamento mediatico volto ad instillare il frame della ripresa economica e dell'uscita dalla crisi. La realtà percepibile spostando anche di poco il velo di Maya è tutt'altra, e parla di una nazione ferma da un decennio, impegnata in inutili sforzi di rigore che anziché produrre risultati positivi distruggono la domanda interna e aggravano la crisi. Una terra che fu in grado di scalare le classifiche dei paesi più industrializzati fino a competere con nazioni molto più grandi e potenti, e che dal 2000 (entrata in vigore della moneta unica) ha visto sparire un quinto della propria capacità industriale. Un paese che non solo ha smesso di fare figli - sabotando il suo stesso futuro - ma che tramite tassi di disoccupazione mantenuti artificiosamente a livelli altissimi spinge i giovani ad andarsene in cerca di fortuna, riaprendo una pagina dolorosa della sua storia che si sperava chiusa per sempre da almeno un secolo.

La strada che imboccammo decenni fa, accettando di vincolarci alle esigenze di altre economie del continente, è chiaramente sbagliata e disastrosa. Il voto del 4 marzo potrebbe essere l'ultima occasione per recuperare la nostra indipendenza avendo ancora a disposizione i mezzi per tornare a competere e vincere.

Non possiamo perderla.

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